Giovedi’ Santo FARE LA PASQUA
Esodo 12, 1- 8.11-14 1 Corinti 11,23-26 Giovanni 13, 1-15
E’ la Pasqua del Signore: l’esclamazione sentita nella 1ª lettura dell’Esodo. Noi la ripetiamo con tutta verità il Giovedì Santo: E’ la Pasqua del Signore!
Che significa «fare la Pasqua»? x molti confessarsi e comunicarsi o – come si è soliti dire – «prendere Pasqua».
Forse è anche per questo che continuiamo a inanellare tante pasque una dopo l’altra, senza che avvenga alcun vero esodo ritrovandoci nell’Egitto spirituale di sempre.
Per andare oltre questo stadio superficiale,
ci poniamo questa sera tre domande:
1) Che significò * per gli ebrei fare la Pasqua?
2) * per Gesù Cristo fare la sua Pasqua
3) Che significa x noi oggi fare la Pasqua?
1. Quello che significò per gli ebrei fare la Pasqua ce lo ha descritto la prima lettura: celebrare un rito, un rito atavico comune anche ad altri pastori nomadi dell’Oriente.
Si uccideva un agnello e lo si consumava insieme in segno di solidarietà, invocando la protezione di Dio, prima di dividersi per raggiungere i nuovi pascoli all’arrivo della primavera.
Quell’anno (si era intorno al 1250 a.C.), questo rito si caricò per i discendenti di Abramo di un significato tutto nuovo: il passaggio di Dio; Dio viene a salvare il suo popolo: In quella notte, io passerò. Pasqua, dunque, perché Dio passò.
Ma non fu solo questo a fare la Pasqua per gli ebrei. Fu qualcosa di più di un rito che celebrava il passaggio di Dio.
Fu un «passare» essi stessi: Pasqua perché Dio ci ha fatti passare, come dirà il libro del Deuteronomio.
Il passaggio attraverso il Mar Rosso, nella concitata notte dell’esodo, era il segno del passaggio, più profondo, dalla schiavitù alla libertà.
Questo popolo diventa libero per servire Dio; si scuote le catene di dosso, si ribella agli aguzzini e va verso l’orizzonte sconfinato del deserto dove il suo Dio l’aspetta.
Passaggio difficile!
La schiavitù ha un suo fascino: non ci sono decisioni da prendere; le pentole sono piene di carne e di cipolle.
E’ assai più difficile gestire la propria libertà; di qui, la tentazione del deserto: tornare indietro, in Egitto. «Perché ci hai fatto uscire dall’Egitto?», dicono a Mosè.
Essi tuttavia proseguirono e attraverso il deserto giunsero alla terra promessa. Questo fu per loro fare la Pasqua: celebrare un rito, ma soprattutto compiere un passaggio.
2. Cosa significò per Gesù fare la sua Pasqua?
Anche per lui, fare la Pasqua significò, anzitutto, celebrare un rito, prima con i suoi genitori e poi con i suoi discepoli. Quello stesso rito che, dalla notte dell’esodo, gli ebrei non avevano smesso di celebrare.
Al tempo di Cristo, tale rito consisteva in questo: ogni famiglia, o gruppo di persone, si procurava un agnello, lo portava a tempio di Gerusa-lemme per farlo immolare dai sacerdoti poi, a sera, in casa, lo si consumava tra preghiere, canti e rievocando ciò che Dio aveva fatto nella liberazione dall’Egitto.
All’approssimarsi della festa, l’ultimo anno di sua vita Gesù mandò due discepoli da un amico che abitava in Gerusalemme a dirgli: Il mio tempo è vicino: farò la Pasqua da te con i mie discepoli. E, mettendosi a tavola, disse: Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi.
Perché l’aveva desiderato tanto?
Perché in questa Pasqua egli avrebbe trasformato la figura in realtà, portando a compimento l’attesa antica di secoli.
Egli era infatti l’Agnello di Dio, di cui l’agnello pasquale era un pallido simbolo. Ciò che fece quella sera ce lo ha ricordato san Paolo nella 2ª lettura: finita la cena, Gesù prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo.
Le stesso fece con il calice.
Questa sarà, d’ora in poi, la nuova cena pasquale per i credenti: l’Eucaristia. In essa si consumano le carni dell’Agnello immacolato e si riceve su di sé il suo sangue.
E’ il memoriale antico che si carica di un nuovo sconfinato contenuto: l’esodo di tutta l’umanità dalla schiavitù dei peccati e dalla vanità della vita verso il perdono e l’alleanza.
Ogni volta che si celebra questo rito, si ricorderà la morte del Signore, fino al giorno della sua venuta.
Una cosa grandissima dunque questa cena del Signore che stiamo commemorando.
Eppure, la Pasqua di Gesù non si esaurisce in essa. La Pasqua non fu, per Gesù, soltanto celebrare o istituire un rito; anche per lui, si trattò di compiere un passaggio.
Giovanni, nel Vangelo di questa Messa, lo definisce il passaggio da questo mondo al Padre.
Gesù stesso ne aveva parlato con l’immagine del chicco di grano che deve essere sepolto in terra per risorgere come spiga e portare frutto.
Ed infatti questo fu il passaggio di Gesù: un passare attraverso la morte verso la vita, un morire per risorgere.
Ma c’è un’impressione da superare.
Non fu un passaggio indolore, scritto in anticipo e recitato da Gesù senza scomporsi, come una specie di copione imparato a memoria.
Fu il passaggio attraverso un abisso insondabile di angoscia. Gesù sperimentò tutta l’amarezza del fallimento, dell’abbandono, della paura all’appressarsi della sua ora.
La tradizione apostolica non poté fare a meno di registrare questa «crisi» di Gesù.
Nel Getsemani, pianse e supplicò che passasse quel calice.
Fu così dunque che Gesù fece la sua Pasqua: «Attraverso la passione passò da questo mondo al Padre, aprendo la via a noi, che crediamo nella sua risurrezione, perché passassimo anche noi dalla morte alla vita» (sant’Agostino).
Adesso è ora che veniamo a noi: 3. che significa per noi fare la Pasqua?
Anche per noi significa anzitutto celebrare un rito, anzi un insieme di riti: la Quaresima è stata già un rito preparatorio alla Pasqua; le funzioni di questi giorni sono riti; riti sono anche i sacramenti pasquali: la Penitenza, il Battesimo o il suo rinnovamento, e l’Eucaristia che ripete la cena pasquale di Cristo.
Noi non saremo davvero così sciocchi o presuntuosi da credere di poter fare a meno di questi riti cui Cristo ha legato la sua grazia e il frutto della sua Pasqua.
Dobbiamo però metterci in testa una cosa: noi possiamo fare tutto ciò, senza tralasciare un solo rito e una sola funzione, e tuttavia non fare la Pasqua.
E’ probabile, anzi, che molti di noi non abbiamo mai fatto la Pasqua in vita loro.
Cosa si richiede per fare in verità la Pasqua?
Quello stesso che si richiese per gli ebrei e per Gesù Cristo: compiere un passaggio.
Un passaggio nuovo e diverso. San Paolo lo definisce il passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo,
dal lievito di malizia agli azzimi di purità.
Non dunque passaggio da un posto all’altro,
ma da un modo di vivere a un altro, dal vivere per e secondo il mondo, al vivere per il Padre.
Il Vangelo ha una parola x esprimere tutto ciò, ed è quella con cui abbiamo iniziato la nostra Quaresima: conversione.
«Pasqua che, tradotto, significa, passaggio »,
dicevano i primi cristiani;
Pasqua che, tradotto, significa conversione,
diremo noi con altrettanta verità.
Un passaggio tra sponde ravvicinate, ma quanto profonde! C’è un abisso di mezzo; dall’«io» a Dio, dal «me» agli «altri».
Di questo passaggio che è conversione, la Pasqua mette in evidenza un aspetto nuovo. Non è solo fatica, rinuncia, dolore. Ma è anche passaggio verso la libertà e verso la gioia. E’ uno scrollarsi di dosso le mille catene che ci tengono schiavi e metterci in cammino verso la «patria dell’identità», là dove saremo davvero noi stessi, liberi per obbedire a Dio.
Noi infatti siamo tuttora schiavi, come gli ebrei in Egitto, anche se di una diversa schiavitù. Siamo schiavi delle cose, dei comodi ai quali non sappiamo rinunciare; schiavi dei pregiudizi e delle mode; schiavi soprattutto dei peccati, perché chiunque commette il peccato è schiavo del peccato.
Dio, a Pasqua, ci chiama a uscire, a ribellarci a tutto ciò, a destarci dal sonno terribile in cui siamo immersi, ad alzarci e a metterci in cammino. Per questo la Pasqua si doveva mangiare con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano e in fretta (Es. 12, 11).
Aprirci a Dio, incamminarci verso di lui, forse è questo il senso più profondo del messaggio pasquale. Non è un invito astratto; la nostra vita è ancora chiusa a lui; egli vi entra solo di sfuggita e obliquamente, come il sole da una piccola feritoia in un castello tutto buio. Bisogna spalancargli le finestre, in questa Pasqua; farci illuminare dalla sua luce; esporre la nostra vita al suo giudizio e al suo perdono, permettergli di riaprire il discorso su di noi che abbiamo forse voluto considerare chiuso, sulla base di un certo compromesso.
Ecco, se entreremo in questa prospettiva coraggiosa, mettendoci in stato di decisione e di conversione davanti a Dio, noi quest’anno faremo davvero la Pasqua con Cristo.
I riti non saranno più solo riti, ma diventeranno realtà viventi, segni e fonti di grazia e ci verrà da esclamare, per la prima volta in modo nuovo:
E’ la Pasqua del Signore!